lunedì 12 maggio 2008

INFERNO CANTO X

Ora se ne va per un appartato sentiero,
tra il muro della città e i martirii,
il mio maestro, e io dietro di lui.
“O sommo virtuoso, che per gli empi cerchi
mi conduci intorno”, cominciai, “come a te piace,
parlami, e soddisfa i miei desideri.
La gente che giace nei sepolcri
si potrebbe vedere? già sono alzati
tutti i coperchi, e nessuno fa la guardia”.
E quegli a me: “Tutti saranno chiusi
quando da Giosafat qui torneranno
coi corpi che lassù hanno lasciato.
Il loro cimitero da questa parte hanno
Epicuro e tutti i suoi seguaci,
che credono che l’anima muoia insieme al corpo.
Perciò alla domanda che mi fai
da qui dentro subito sarà data risposta,
e al desiderio che ancora tu non mi dici”.
E io: “Buon duca, non tengo celato
a te il mio cuore se non per parlare poco,
e tu mi hai, non proprio adesso, a ciò disposto”.
“O toscano che per la città del fuoco
vivo te ne vai parlando così cortesemente,
compiaciti di restare in questo luogo.
La tua parlata manifesta
che tu sei nativo di quella nobile patria,
alla quale forse fui troppo molesto”.
All’improvviso questo suono uscì
da una delle tombe; perciò mi accostai,
temendo, un poco di più al duca mio.
Ed egli mi disse: “Volgiti! Che fai?
Vedi là Farinata che si è alzato:
dalla cintola in su tutto lo vedrai”.
Io avevo già fissato il mio sguardo nel suo;
ed egli si ergeva con il petto e con la fronte
come se avesse l’inferno in gran disprezzo.
E prontamente le animose mani del duca
mi spinsero tra le sepolture fino a lui,
dicendo: “Le tue parole siano contegnose”.
Come io fui davanti alla sua tomba,
mi guardò un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi domandò: “Chi furono i tuoi antenati?”.
Io che ero desideroso di ubbidire,
non glieli celai, ma glieli dissi apertamente;
quindi egli aggrottò un po’ la fronte;
poi disse: “Furono fieramente avversi
a me e ai miei avi e alla mia fazione,
sì che per due volte li dispersi”.
“Se furono cacciati, essi ritornarono da ogni parte”,
risposi io a lui, “l'una e l'altra volta;
ma i vostri non appresero bene quell’arte”.
Allora si levò dall’apertura scoperchiata
uno spirito, accanto a questo (a Farinata), dal mento in su:
credo che si era messo in ginocchio.
Guardò intorno a me, come se desiderio
avesse di vedere se altri erano con me;
e dopo che non ebbe più dubbi (sul fatto che ero solo),
disse piangendo: “Se per questo cieco
carcere vai per l'altezza del tuo ingegno,
mio figlio dov’è? e perché non è con te?”.
E io a lui: “Non vengo per mia iniziativa:
colui (Virgilio) che attende là, mi porta per questo regno,
colui che forse Guido vostro ebbe a disdegno”.
Le sue parole e il tipo della sua pena
mi avevano di costui già rivelato il nome;
perciò fu la risposta così piena.
Subito drizzatosi gridò: “Come
dicesti? Egli 'ebbe'? Egli non è più vivo?
la dolce luce del sole non ferisce più i suoi occhi?”.
Quando si accorse di qualche indugio
che io avevo prima di rispondere,
ricadde supino e non apparve più fuori.
Ma quell’altro magnanimo, a cui richiesta
mi ero fermato, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò suo fianco;
e continuando il discorso di prima,
“Se essi hanno quell’arte”, disse, “male appresa,
ciò mi tormenta più di questo letto in cui giaccio.
Ma non sarà riaccesa cinquanta volte
la faccia della donna che qui regge (la luna: non passeranno 50 pleniluni)
che tu saprai quanto quell’arte è difficile.
Con l'augurio che tu possa ritornare nel dolce mondo,
dimmi: perché quel popolo (fiorentino) è così spietato
contro i miei in ciascuna sua legge?”.
Da che io a lui: “Lo strazio e il grande scempio
che colorò il fiume Arbia di rosso (rosso di sangue),
tali provvedimenti fa prendere nei nostri consigli”.
Dopo che ebbe mosso il capo sospirando,
“Non fui solo a fare questo”, disse, “né certo
senza ragione avrei agito insieme agli altri.
Ma fui io solo, là dove accettato
fu da ciascuno di radere al suolo Firenze,
colui che la difese a viso aperto”.
“Deh, con l'augurio che la vostra stirpe possa trovare riposo”,
pregai io a lui, “scioglietemi quel nodo
che qui ha imbrogliato il mio pensiero.
Sembra che voi vediate, se ben odo,
in anticipo ciò che il tempo porta con sé,
e per il presente avete un altro modo”.
“Noi vediamo, come chi è presbite,
le cose”, disse, “che ne sono lontane;
di tanto risplende ancora a noi il Sommo Duce.
Quando si avvicinano o sono, è tutto vano
il nostro intelletto; e se altri non ci apportano notizie,
nulla sappiamo della vostra condizione.
Perciò puoi comprendere che del tutto morta
sarà la nostra conoscenza da quel momento
che sarà chiusa la porta del futuro”.
Allora, come se fossi afflitto da qualcosa commessa per mia colpa,
dissi: “Ora direte dunque a quel caduto
che il suo figlio è ancora in mezzo ai viventi;
e se io restai, prima, muto senza rispondere,
fategli sapere che lo feci perché ero assorto
già nel dubbio che mi avete sciolto”.
E già il maestro mio mi richiamava;
per cui io pregai quello spirito più solertemente
che mi dicesse chi stava insieme con lui.
Mi disse: “Qui con più di mille giaccio:
qua dentro c’è Federico II (di Svevia)
e il Cardinale; e degli altri taccio”.
Quindi si nascose; e io verso l’antico
poeta rivolsi i passi, ripensando
a quelle parole che mi parevano avverse.
Egli si incamminò; e poi, così andando,
mi disse: “Perché sei così smarrito?”.
E io risposi alla sua domanda.
“La tua memoria conservi quel che udito
hai contro di te”, mi comandò quel saggio;
“e ora fai qui attenzione”, e alzò il dito:
“quando sarai davanti al dolce sguardo
di quella il cui bell'occhio tutto vede,
da lei conoscerai il viaggio della tua vita”.
Dopo si incamminò dal lato sinistro:
lasciammo il muro e andammo verso il centro
per un sentiero che termina in una valle,
che fin lassù faceva arrivare il suo fetore.

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