martedì 6 maggio 2008

INFERNO CANTO VI

Al tornare dei sensi, che avevo perso
davanti al dolore dei due cognati,
che di tristezza mi turbò del tutto,
nuovi tormenti e nuovi tormentati
mi vedo intorno, comunque io mi muova
e io mi volga, e comunque io guardi.
Io sono al terzo cerchio, della pioggia
eterna, maledetta, fredda e greve;
non cambia mai di quantità e di qualità.
Grossa grandine, acqua scura e neve
si riversano per l’atmosfera tenebrosa;
puzza la terra che riceve questo.
Cerbero, bestia crudele e strana,
con tre gole latra come un cane
sopra la gente che là vi è sommersa.
Gli occhi ha vermigli, la barba unta e nera,
e il ventre largo, e unghiate ha le mani;
graffia gli spiriti e li scuoia e li squarta.
La pioggia li fa urlare come cani;
Con un lato (fianco) fanno riparo all’altro lato;
si voltano spesso i miseri profani.
Quando ci scorse Cerbero, il gran verme,
le bocche aperse e ci mostrò le zanne;
non c’era membro che mantenesse fermo.
E il duca mio distese le sue mani aperte,
prese la terra, e con piene le pugna
la gettò dentro alle bramose gole.
Come fa un cane che abbaiando agogna (il cibo),
e si racquieta dopo che il pasto morde,
che è intento solo a divorarlo e si affatica,
così si fecero quelle facce lorde
del demonio Cerbero, che rintrona
le anime a tal modo, che vorrebbero essere sorde.
Noi passavamo sopra gli spiriti prostrati
dalla greve pioggia, e mettevamo le piante (dei piedi)
sopra la loro vanità che sembra persona reale.
Giacevano tutti quanti per terra,
eccetto uno che si levò a sedere, subito quando
ci vide passargli davanti.
“O tu che sei condotto attraverso questo inferno”,
mi disse, “riconoscimi, se sai:
tu nascesti (fosti fatto) prima che io morissi (prima ch'io disfatto)”.
E io a lui: “L'aspetto angoscioso che tu hai
forse ti tira fuori dalla mia memoria,
sì che non mi pare che io ti abbia mai visto.
Ma dimmi tu chi sei che in così doloroso
luogo sei messo, e hai così fatta pena,
che, se un'altra è maggiore, nessuna è così disgustosa”.
Ed egli a me: “La tua città (Firenze), che è piena
d’invidia sì che già trabocca il sacco,
con sè mi tenne nella vita serena.
Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa della gola,
come tu vedi, alla pioggia mi fiacco.
E io triste anima non sono sola,
che tutte queste a simile pena stanno
a causa della simile colpa”. E non disse più niente.
Io gli risposi: “Ciacco, il tuo affanno
mi pesa così tanto, che mi invita alle lacrime;
ma dimmi, se sai, a che estremi arriveranno
i cittadini della città ripartita in fazioni (Firenze);
se vi è qualcuno giusto; e dimmi la ragione
perché vi regna tanta discordia”.
E quegli a me: “Dopo lunga lotta
verranno al sangue, e la parte selvatica,
caccerà l’altra con molta violenza.
Dopo bisogna che questa cada
entro tre anni (tre soli), e che l’altra sormonti
con la forza di un tale che ora si barcamena.
Terrà alta per lungo tempo la fronte,
tenendo l’altra sotto gravi pesi,
per quanto essa di ciò pianga o si sdegni.
Giusti sono due, e non sono ascoltati;
superbia, invidia e avarizia sono
le tre scintille che hanno incendiato i cuori”.
Qui mise termine al lacrimabile suono.
E io a lui: “Ancora voglio che tu mi insegni
e che tu mi faccia dono di altre parole.
Farinata e il Tegghiaio, che furono sì degni,
Iacopo Rusticucci, Arrigo e il Mosca
e gli altri che nel bene operare applicarono il loro ingegno,
dimmi dove sono e fa che io li conosca;
che desidero grandemente di sapere
se sono tra le dolcezze del Cielo o se l’inferno li attossica”.
E quegli: “Essi sono tra le anime più nere;
diverse colpe li gravano giù al fondo:
se altrettanto scendi, là li potrai vedere.
Ma quando tu sarai nel dolce mondo (sulla terra),
ti prego che mi richiami alla memoria altrui:
di più non dico e più non ti rispondo”.
Allora storse gli occhi che aveva diritti;
mi guardò un poco e poi chinò la testa:
con essa cadde allo stesso modo degli altri ciechi.
E il duca disse a me: “Più non si desta
prima del suono dell’angelica tromba,
quando verrà la nemica potenza:
ciascuno rivedrà la triste tomba,
riprenderà la sua carne e il suo aspetto,
udirà quello che risuonerà in eterno (il verdetto divino)”.
Così passammo attraverso la zozza mistura
degli spiriti e della pioggia, a passi lenti,
ragionando un poco della vita futura;
quando io dissi: “Maestro, questi tormenti
cresceranno dopo la gran sentenza,
o saranno minori, o saranno così cocenti?”
Ed egli a me: “Ritorna alla tua scienza,
che vuole, quanto più una cosa è perfetta,
che più senta il bene, e così il dolore.
Per quanto questa gente maledetta
non giunga mai alla vera perfezione,
aspetta di essere di là (del giudizio) più che di qua”.
Noi aggirammo a tondo quella strada,
parlando molto più di quello che non dico;
arrivammo al punto dove si scende:
là vi trovammo Pluto, il gran nemico.

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