giovedì 8 maggio 2008

INFERNO CANTO VIII

Io dico, seguitando, che molto prima
che noi fossimo ai piedi dell’alta torre,
i nostri occhi si rivolsero su alla cima
per via di due fuocherelli che vi vedemmo porre,
e un altro (fuoco) vi rispose da lontano,
tanto lontano che appena l’occhio poteva scorgerlo.
E io mi rivolsi al mare di tutto il senno;
dissi: “Questo che dice? e che risponde
quell’altro fuoco? e chi sono quelli che lo fecero?”.
Ed egli a me: “Su per le sudice onde
già puoi scorgere colui che è atteso,
se la nebbia del pantano non te lo nasconde”.
Una corda non scoccò mai freccia
che corresse per aria tanto veloce,
come io vidi una piccola imbarcazione
venire in quel mentre sull’acqua verso di noi,
sotto il governo di un sol galeotto,
che gridava: “Ora sei giunta, anima peccatrice!”.
“Flegiàs, Flegiàs, tu gridi a vuoto”,
disse il mio signore, “questa volta
non ci avrai che solo per il tempo necessario a percorrere la palude”.
Come colui che un grande inganno ascolta
che gli sia fatto, e poi se ne rammarica,
così si fece Flegiàs nell’ira repressa.
Il duca mio discese nella barca,
e poi mi fece entrare dietro di lui;
e solo quando io fui dentro sembrò carica.
Non appena io e il duca fummo nella barca,
l’antica prua avanzava fendendo
più acqua di quanto era solita fare con altrui.
Mentre noi percorrevamo la morta gora,
davanti mi si fece uno pieno di fango,
e disse: “Chi sei tu che vieni prima del tempo?”.
E io a lui: “Se io vengo, non rimango;
ma tu chi sei, che ti sei così bruttato?”.
Rispose: “Vedi che sono uno che piange”.
E io a lui: “Con piangere e con lutto,
spirito maledetto, rimanitene qui;
che io ti riconosco, ancorché tu sia del tutto lordo”.
Allora distese verso la barca ambo le mani;
per cui il maestro accorto lo spinse via,
dicendo: “Vai via là con gli altri cani!”.
Poi mi abbracciò con le braccia al collo;
mi baciò sul viso e disse: “Anima sdegnosa,
benedetta colei che di te si incinse!
Quegli fu al mondo persona orgogliosa;
la sua memoria non ha lasciato un minimo ricordo di bontà:
così il suo spirito si è qui infuriato.
Quanti che si stimano ora lassù importanti come dei gran re
e che qui staranno come dei porci nel brago,
lasciando di loro una memoria di orribili dispregi!”.
E io: “Maestro, molto sarei desideroso
di vederlo sommergere in questa brodaglia
prima che noi usciamo fuori dal lago”.
Ed egli a me: “Prima che la riva
ti si faccia vedere, tu sarai appagato:
di tale desiderio convien che tu goda”.
Poco dopo questo, io vidi quello strazio
fare a costui dalle fangose genti,
che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.
Tutti gridavano: “A Filippo Argenti!”;
e il fiorentino spirito bizzarro
si rivolgeva con i denti a sé medesimo.
Là lo lasciammo, sicché più non ne narro;
ma nelle orecchie mi percosse un suono di dolore,
per cui io aprii gli occhi attenti per guardare avanti.
Il buon maestro disse: “Ormai, figliolo,
si avvicina la città che ha nome Dite,
coi gravi cittadini, col grande stuolo”.
E io: “Maestro, già le sue moschee
distinguo chiaramente là dentro nella valle,
vermiglie come se dal fuoco uscite
fossero”. Ed egli mi disse: “Il fuoco eterno
che all'interno le infuoca le fa apparire rosse,
come tu vedi in questo basso inferno”.
Infine noi giungemmo dentro alle alte fosse
che vallano quella terra sconsolata:
le mura mi parevano che fossero di ferro.
Non senza prima aver fatto una grande aggirata (delle mura),
arrivammo in quella parte dove il nocchiere fortemente
gridò: “Uscite da qua. Qui è l’entrata”.
Io ne vidi più di mille sulle porte
piovuti dal cielo, che stizzosamente
dicevano: “Chi è costui che senza essere morto
se ne va per il regno della gente morta?”.
E il savio mio maestro fece segno
di voler parlare a loro in segreto.
Allora mitigarono un poco il gran disdegno
e dissero: “Vieni tu da solo, e quegli se ne vada
che così ardito entrò in questo regno.
Solo se ne ritorni per la folle strada:
provi, se sa; che tu rimarrai qui,
che lo hai scortato per tale buia contrada”.
Pensa, lettore, se io mi sconfortai
al suono delle parole maledette,
che non credetti di ritornare mai.
“O caro duca mio, che più di sette
volte mi hai restituito sicurezza e tirato fuori
dall’alto pericolo che mi stette incontro,
non mi lasciare”, dissi io, “così distrutto;
e se il procedere oltre ci è negato,
ritroviamo subito insieme le nostre orme”.
E quel signore che mi aveva portato lì,
mi disse: “Non temere; che il nostro procedere
nessuno ci può togliere: da “tale” ci è dato.
Ma attendimi qui, e lo spirito accasciato
conforta e nutri di buona speranza,
che io non ti lascerò nel mondo basso”.
Così se ne va, e là mi abbandona
il dolce padre, e io rimango in forse,
che 'sì' e 'no' si contrastano nella mia testa.
Non potei udire quello che disse loro;
ma egli non stette là con essi a lungo,
che ciascuno corse dentro come facendo a gara (a pruova).
Chiusero le porte quei nostri avversari
in faccia al mio signore, che rimase fuori
e ritornò verso di me con passi lenti.
Aveva gli occhi bassi e lo sguardo privo
di ogni baldanza, e diceva sospirando:
“(Vedi tu) chi mi ha negato l'accesso alle dolenti case!”.
E a me disse: “Tu, per quanto io mi adiri,
non sbigottirti, che io vincerò la prova,
chiunque si aggiri lì dentro alla difesa (della città dal nostro ingresso).
Questa loro presunzione non è nuova;
ché già l’usarono alla porta più esterna,
la quale si trova ancora senza serrame.
Sopra di essa tu vedesti la scritta morta:
e già oltre di lei sta discendendo la ripa,
attraversando i cerchi senza scorta,
tale che per lui ci sarà aperta la terra”.

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