giovedì 1 maggio 2008

INFERNO CANTO IV

Mi interruppe il sonno profondo
un cupo tuono, sì che io mi riscossi
come persona che è svegliata in modo brusco;
e guardai intorno con gli occhi riposati,
alzatomi in piedi, e guardai fisso
per conoscere il luogo dove io fossi.
E' vero che mi trovai sulla riva
della valle d’abisso dolorosa
che accoglie il frastuono di infiniti lamenti.
Era oscura e profonda e nebbiosa
tanto che, per quanto aguzzassi la vista,
io non vi distinguevo alcuna cosa.
“Ora discendiamo qua giù nel cieco mondo”,
cominciò il poeta tutto smorto.
“Io camminerò davanti e tu dietro di me”.
E io, che del suo colorito mi fui accorto,
dissi: “Come verrò, se tu hai paura
che di solito al mio dubitare sei conforto?”.
Ed egli a me: “L’angoscia delle genti
che sono qua giù, nel viso mi dipinge
quella pietà che tu senti essere timore.
Andiamo, che il lungo cammino che dobbiamo fare ci incalza”.
Così entrò e così mi fece entrare
nel primo cerchio che racchiude l’abisso.
Là, stando a ciò che si poteva ascoltare,
non c’era altra sofferenza più che di sospiri
che l’aura eterna facevano tremare;
ciò avveniva per un dolore senza martirii,
che avevano le turbe, che erano molte e grandi,
di bambini e di donne e di uomini.
Il buon maestro a me: “Tu non domandi
che spiriti sono questi che tu vedi?
Ora voglio che tu sappia, prima che più procedi,
che essi non peccarono; e se essi hanno meriti,
non bastano, perché non ebbero battesimo,
che è la porta della fede (la fede cristiana) nella quale tu credi;
e se loro vissero prima del cristianesimo,
non adorarono Dio nel modo dovuto:
e di questi cotali sono io medesimo.
Per queste mancanze, non per altro peccato,
siamo perduti, e solo di ciò puniti
che senza speranza viviamo col desiderio (del Cielo)”.
Grande dolore mi prese al cuore quando lo intesi,
perché gente di molto valore
conobbi che in quel limbo erano sospesi.
“Dimmi, maestro mio, dimmi, signore”,
cominciai io per volere essere certo
di quella fede che vince ogni errore:
“uscì di qui mai alcuno, o per suo merito
o per merito altrui, per giungere ad essere beato?”.
E quegli che intese il mio parlare allusivo,
rispose: “Io ero nuovo in questo stato,
quando ci vidi venire un potente,
con segno di vittoria coronato.
Trasse da qui lo spirito del primo progenitore (Adamo),
di Abele suo figlio e quello di Noè,
di Mosè legislatore e ubbidiente;
Abramo patriarca e il re Davide,
Israele (Giacobbe) con il padre (Isacco) e coi suoi nati
e con Rachele, per la quale tanto fece,
e molti altri e li fece beati.
E voglio che tu sappia che, prima di essi,
nessuno spirito umano era stato salvato”.
Continuavamo a procedere mentre egli parlava,
e attraversavamo la selva,
la selva, dico, di spiriti numerosi.
Non avevamo percorso tanta strada
da quando mi svegliai, quando io vidi un fuoco
che faceva una zona emisferica di luce nelle tenebre.
Ne eravamo ancora un poco lontani,
ma non tanto che io non distinguessi in parte
quale onorabile gente occupava quel luogo.
“O tu che onori scienza e arte,
questi chi sono che hanno tanto onore,
che dalla condizione degli altri li distingue?”.
E quegli a me: “L'onorata nominanza
che di loro suona lassù nella tua vita terrena,
acquista favore in Cielo che così li privilegia”.
Intanto una voce fu udita da me:
“Onorate l’altissimo poeta;
lo spirito suo torna, che era andato via”.
Dopo che la voce terminò e si fece silenzio,
vidi quattro grandi spiriti venire da noi:
avevano un aspetto né triste né lieto.
Il buon maestro cominciò a dire:
“Guarda colui con quella spada in mano,
che precede gli altri tre come signore:
quegli è Omero poeta sovrano;
l’altro è Orazio scrittore di satire che viene;
Ovidio è il terzo, e l’ultimo è Lucano.
Poiché ciascuno condivide con me
il nome (di poeta) che riecheggiò nella voce unanime (sola)
mi fanno onore, e di ciò fanno bene”.
Così vidi io adunarsi la bella scuola
di quel signore dell’altissimo canto (Omero)
che sopra gli altri come un'aquila vola.
Dopo che ebbero ragionato insieme alquanto,
si rivolsero a me con un cenno di saluto,
e il mio maestro sorrise di ciò;
e mi fecero ancora molto più onore,
che loro così mi fecero parte della loro schiera,
così che io fui il sesto tra cotanto senno.
Così andammo fino alla luce (del fuoco),
parlando di cose di cui è bello tacere,
così come era bello il parlarne là dov'era.
Arrivammo ai piedi di un nobile castello,
sette volte circondato da alte mura,
difeso intorno da un bel fiumicello.
Questo attraversammo come fosse terra dura;
per sette porte entrai con questi saggi:
giungemmo in un prato di fresca verdura.
Vi erano genti con occhi tardi e gravi,
di grande autorità nel loro aspetto:
parlavano poco, con voci soavi.
Ci togliemmo così da uno dei lati,
in luogo aperto, luminoso e alto,
sì che si potevano vedere tutti quanti.
Lì, di fronte, sopra l’erba lucente,
mi furono mostrati gli spiriti dei magnanimi,
del cui vedere mi esalto nell’intimo.
Lì vidi Elettra con molti compagni,
tra i quali riconobbi Ettore ed Enea,
Cesare armato con gli occhi vividi.
Vidi Camilla e la Pentasilea;
dall’altra parte vidi il re Latino
che sedeva con sua figlia Lavina.
Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,
Lucrezia, Giulia, Marzia e Cornelia;
e solo, in disparte, vidi il Saladino.
Dopo che alzai un poco più gli occhi,
vidi il maestro di coloro che sanno
sedere tra filosofica famiglia (Aristotele).
Tutti lo ammirano, tutti gli fanno onore:
lì vidi io Socrate e Platone,
che davanti agli altri più vicino gli stanno;
Democrito che il mondo a caso pone,
Diogene, Anassàgora e Talete,
Empedocle, Eraclito e Zenone;
e vidi il bravo raccoglitore della qualità delle piante,
Diascoride dico; e vidi Orfeo,
Tullio (Cicerone) e Lino e Seneca morale;
Euclide geometrico e Tolomeo,
Ippòcrate, Avicenna e Galeno,
Averroé che il gran commento fece (commento ad Aristotele).
Io non posso ritrarre di tutti a pieno,
perché mi incalza sì il lungo trattato,
che molte volte il racconto è inadeguato ai fatti.
La compagnia dei sei si divide in due:
per altra via mi porta il saggio duca,
fuori dalla quiete, nell’aura che trema.
E vengo in quella parte dove non c’è niente che faccia luce.

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