lunedì 28 aprile 2008

INFERNO CANTO I

Giunto a metà degli anni che ci è dato da vivere
mi ritrovai dentro una selva oscura,
ché la retta via avevo smarrito.
Ahi quanto è difficile dire come era
questa selva selvaggia e aspra e impenetrabile
che al ripensarci ritorna la paura!
Tanto è amara che la morte è poco di più;
ma per trattare del bene che io vi trovai,
dirò delle altre cose che vi ho scorto.
Io non so bene ridire come io vi entrai,
così tanto ero pieno di sonno in quel momento,
che la via vera abbandonai.
Ma dopo che io fui giunto ai piedi di un colle,
là dove terminava quella valle
che mi aveva trafitto il cuore di paura,
guardai in alto e vidi le sue spalle (del colle)
investite già dai raggi del sole, astro
che conduce diritto ognuno per ogni sentiero.
Allora la paura un poco si acquietò,
che nel lago del cuore mi era durata
nella notte che io passai con tanto patema.
E come colui che con respiro affannoso,
uscito fuori dal mare fin sulla riva,
si volge verso le pericolose acque e guarda,
così il mio animo, che ancora fuggiva,
si volse indietro a rimirare il passaggio
che non lasciò mai nessuno vivo.
Dopo che ebbi riposato un poco il corpo stanco,
ripresi la strada per il pendio deserto,
in tal modo che il mio piede più sicuro era sempre quello inferiore.
Ed ecco, quasi al cominciare della salita,
una belva snella e molto agile,
che era coperta di pelo maculato;
e non si allontanava davanti a me,
anzi impediva tanto il mio cammino,
che io mi disposi più volte a tornare indietro.
Era il principio del mattino,
e il sole sorgeva congiunto con quella stessa costellazione
a cui era congiunto quando l’amore divino
mosse per la prima volta quelle cose belle (le stelle) ;
cosicché avevo motivo di non disperare
per quella belva dal pelo screziato
dati l’ora del giorno e la dolcezza della stagione;
ma non tanto da non darmi paura
la vista di un leone.
Questo sembrava che venisse contro di me
con la testa alta e con rabbiosa fame,
sì che sembrava che l’aria ne tremasse.
E di una lupa, che di ogni bramosia
sembrava carica nella sua magrezza,
e molte genti già fece vivere grame,
questa mi fece diventare tanto cupo
con la paura che suscitava il suo aspetto,
che io persi la speranza di guadagnare quell’altezza (la cima del colle).
E come colui che volentieri accumula beni,
e giunge il tempo che glieli fa perdere,
in tutti i suoi pensieri piange e si rattrista;
così fece di me l’irrequieta belva,
che, venendomi incontro, a poco a poco
mi respingeva là dove non batte il sole.
Mentre io stavo rovinando verso il fondo,
si offrì alla mia vista
colui che per un lungo silenzio pareva non avere quasi più voce.
Quando vidi costui nel gran deserto,
“Abbi pietà di me”, gridai a lui,
“chiunque tu sia, fantasma o uomo reale!”.
Mi rispose: “Non sono un uomo, ma lo fui,
e i miei genitori furono lombardi,
cittadini di Mantova ambedue.
Nacqui sotto Giulio Cesare, per quanto tardi,
e vissi a Roma sotto il valente Augusto
nel tempo degli dèi (pagani) falsi e bugiardi.
Fui poeta, e cantai di quel giusto
figliolo d’Anchise che venne da Troia,
dopo che il superbo Iliòn fu incendiato.
Ma tu perché ritorni a tanta angoscia?
perché non sali il dilettoso monte
che è principio e causa di ogni gioia?”.
“Dunque sei tu Virgilio, sorgente
di così grande fiume che spandi nel parlare?”,
risposi io a lui con vergognosa fronte.
“O onore e luce degli altri poeti,
mi valga il lungo studio e il grande amore
con cui ho studiato la tua opera.
Tu sei il mio maestro e la mia autorità,
tu solo sei colui da cui io trassi
il bello stile che mi ha fatto onore.
Guarda la belva per cui io mi volsi indietro;
aiutami da lei, famoso saggio,
che essa mi fa tremare le vene e i polsi”.
“A te conviene seguire un’altra strada”,
rispose, dopo che mi vide lacrimare,
“se vuoi uscire vivo da questo luogo selvaggio;
perché questa belva, per la quale tu gridi,
non lascia passare alcuno per la sua via,
ma tanto lo impedisce che l’uccide;
e ha natura così malvagia e perversa,
che non sazia mai la sua bramosa voglia,
e dopo il pasto ha più fame che prima.
Molti sono gli animali a cui si congiunge,
e più saranno ancora, fino a che il veltro
verrà, che la farà morire con dolore.
Questi non si pascerà di terra né di metallo (né di terre né di denari),
ma di sapienza, amore e virtù,
e sua nazione sarà tra Feltre e il Montefeltro.
Di quell’umile Italia sarà salute
per la quale morirono la vergine Camilla,
Eurialo e Turno e Niso per le ferite riportate.
Questi la caccerà da ogni città,
finché non la avrà rispedita nell’inferno,
la dove l’invidia del demonio (la prima invidia) la fece dipartire.
Così io per il tuo meglio penso e discerno
che tu mi segua e io ti sarò guida,
e ti trarrò via di qui attraverso un luogo eterno;
dove udirai le disperate strida,
vedrai gli spiriti dolenti di persone vissute fin dall’antichità,
che ognuno di essi invoca la seconda morte;
e vedrai coloro che sono contenti
nel fuoco, perché sperano di venire
quando che sia tra le beate genti.
Alle quali poi se tu vorrai salire,
ci sarà un'anima a ciò più degna di me:
con lei ti lascerò nel mio partire;
perché quell’imperatore che là su regna (Dio),
perché io fui ribelle alla sua legge,
non vuole che nella sua città tramite me si venga.
In ogni parte Egli impera e lì (in paradiso) regna;
lì è la sua città e l’Alto Trono:
oh felice colui che lì Dio elegge!”
E io a lui: “Poeta, io ti chiedo
per quel Dio che tu non conoscesti,
perché io fugga il mio presente male e peggio,
che tu mi porti là dove ora dicesti,
così che io veda la porta di san Pietro
e coloro che tu dici essere così mesti”.
Allora si incamminò e io andai dietro a lui.

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