martedì 6 maggio 2008

COMMENTO INFERNO CANTO VI

13-18. Cerbero, mostro dell'Averno classico, con tre teste con colli avvolti da serpenti. E' messo da Dante come guardiano di questo terzo cerchio dei golosi, seguendo anche Virgilio che lo mise come guardiano infernale.
49-50, 60-63. la tua città, che è piena d'invidia sì che già trabocca il sacco: Ciacco, pur essendo all'inferno, mostra di sapere delle cose che riguardano la terra. Tanto che Dante chiederà (vv. 60-63) a lui ulteriori informazioni riguardo alla sua città, Firenze.
79-84. Continua la richiesta di informazioni di Dante a Ciacco. Questa volta la richiesta di informazioni è sia sulla sua città, riguardando cittadini di Firenze, sia sul mondo dell'aldilà, perché vuole sapere dove si trovano: “gran disio mi stringe di savere/ se 'l ciel li addolcia o lo 'nferno li attosca” (vv. 83-84). Ma la risposta di Ciacco non sarà confortante.
94-99. Virgilio sta parlando del giorno del giudizio finale, quando ci sarà il suono dell'angelica tromba. La nemica potenza è Cristo giudice, nemica per i peccatori. In quel giorno ognuno risorgerà con il proprio corpo e udirà il verdetto divino, insindacabile per l'eternità.

INFERNO CANTO VI

Al tornare dei sensi, che avevo perso
davanti al dolore dei due cognati,
che di tristezza mi turbò del tutto,
nuovi tormenti e nuovi tormentati
mi vedo intorno, comunque io mi muova
e io mi volga, e comunque io guardi.
Io sono al terzo cerchio, della pioggia
eterna, maledetta, fredda e greve;
non cambia mai di quantità e di qualità.
Grossa grandine, acqua scura e neve
si riversano per l’atmosfera tenebrosa;
puzza la terra che riceve questo.
Cerbero, bestia crudele e strana,
con tre gole latra come un cane
sopra la gente che là vi è sommersa.
Gli occhi ha vermigli, la barba unta e nera,
e il ventre largo, e unghiate ha le mani;
graffia gli spiriti e li scuoia e li squarta.
La pioggia li fa urlare come cani;
Con un lato (fianco) fanno riparo all’altro lato;
si voltano spesso i miseri profani.
Quando ci scorse Cerbero, il gran verme,
le bocche aperse e ci mostrò le zanne;
non c’era membro che mantenesse fermo.
E il duca mio distese le sue mani aperte,
prese la terra, e con piene le pugna
la gettò dentro alle bramose gole.
Come fa un cane che abbaiando agogna (il cibo),
e si racquieta dopo che il pasto morde,
che è intento solo a divorarlo e si affatica,
così si fecero quelle facce lorde
del demonio Cerbero, che rintrona
le anime a tal modo, che vorrebbero essere sorde.
Noi passavamo sopra gli spiriti prostrati
dalla greve pioggia, e mettevamo le piante (dei piedi)
sopra la loro vanità che sembra persona reale.
Giacevano tutti quanti per terra,
eccetto uno che si levò a sedere, subito quando
ci vide passargli davanti.
“O tu che sei condotto attraverso questo inferno”,
mi disse, “riconoscimi, se sai:
tu nascesti (fosti fatto) prima che io morissi (prima ch'io disfatto)”.
E io a lui: “L'aspetto angoscioso che tu hai
forse ti tira fuori dalla mia memoria,
sì che non mi pare che io ti abbia mai visto.
Ma dimmi tu chi sei che in così doloroso
luogo sei messo, e hai così fatta pena,
che, se un'altra è maggiore, nessuna è così disgustosa”.
Ed egli a me: “La tua città (Firenze), che è piena
d’invidia sì che già trabocca il sacco,
con sè mi tenne nella vita serena.
Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa della gola,
come tu vedi, alla pioggia mi fiacco.
E io triste anima non sono sola,
che tutte queste a simile pena stanno
a causa della simile colpa”. E non disse più niente.
Io gli risposi: “Ciacco, il tuo affanno
mi pesa così tanto, che mi invita alle lacrime;
ma dimmi, se sai, a che estremi arriveranno
i cittadini della città ripartita in fazioni (Firenze);
se vi è qualcuno giusto; e dimmi la ragione
perché vi regna tanta discordia”.
E quegli a me: “Dopo lunga lotta
verranno al sangue, e la parte selvatica,
caccerà l’altra con molta violenza.
Dopo bisogna che questa cada
entro tre anni (tre soli), e che l’altra sormonti
con la forza di un tale che ora si barcamena.
Terrà alta per lungo tempo la fronte,
tenendo l’altra sotto gravi pesi,
per quanto essa di ciò pianga o si sdegni.
Giusti sono due, e non sono ascoltati;
superbia, invidia e avarizia sono
le tre scintille che hanno incendiato i cuori”.
Qui mise termine al lacrimabile suono.
E io a lui: “Ancora voglio che tu mi insegni
e che tu mi faccia dono di altre parole.
Farinata e il Tegghiaio, che furono sì degni,
Iacopo Rusticucci, Arrigo e il Mosca
e gli altri che nel bene operare applicarono il loro ingegno,
dimmi dove sono e fa che io li conosca;
che desidero grandemente di sapere
se sono tra le dolcezze del Cielo o se l’inferno li attossica”.
E quegli: “Essi sono tra le anime più nere;
diverse colpe li gravano giù al fondo:
se altrettanto scendi, là li potrai vedere.
Ma quando tu sarai nel dolce mondo (sulla terra),
ti prego che mi richiami alla memoria altrui:
di più non dico e più non ti rispondo”.
Allora storse gli occhi che aveva diritti;
mi guardò un poco e poi chinò la testa:
con essa cadde allo stesso modo degli altri ciechi.
E il duca disse a me: “Più non si desta
prima del suono dell’angelica tromba,
quando verrà la nemica potenza:
ciascuno rivedrà la triste tomba,
riprenderà la sua carne e il suo aspetto,
udirà quello che risuonerà in eterno (il verdetto divino)”.
Così passammo attraverso la zozza mistura
degli spiriti e della pioggia, a passi lenti,
ragionando un poco della vita futura;
quando io dissi: “Maestro, questi tormenti
cresceranno dopo la gran sentenza,
o saranno minori, o saranno così cocenti?”
Ed egli a me: “Ritorna alla tua scienza,
che vuole, quanto più una cosa è perfetta,
che più senta il bene, e così il dolore.
Per quanto questa gente maledetta
non giunga mai alla vera perfezione,
aspetta di essere di là (del giudizio) più che di qua”.
Noi aggirammo a tondo quella strada,
parlando molto più di quello che non dico;
arrivammo al punto dove si scende:
là vi trovammo Pluto, il gran nemico.

lunedì 5 maggio 2008

FORSE........

E' di oggi la notizia che il ciclone in Birmania ha fatto migliaia di morti. E' inevitabile ogni volta, porsi la domanda: perché? Perché, Dio, permetti che inondazioni, terremoti, distruggano migliaia di vite umane e abitazioni? Dopo il terribile tsunami del 2004 che ha fatto 100.000 morti, è stata colpita di nuovo quell'area geografica.
Per noi che siamo abituati ad avere tutti i confort, è inconcepibile pensare di vivere una vita che si trascina del fango, bisognosi di tutto, senza più casa, senza più viveri, aspettandosi tutto dalla divina provvidenza. Ma la fede cerca delle risposte. “Se chiederete con fede, otterrete” disse il Signore. Allora forse la risposta è che con queste calamità, noi uomini siamo chiamati a una carità più attiva, a una carità concreta. Ci sono anche quelli che non si sentono chiamati a nulla, ma in genere tutti siamo chiamati a fare, a pensare di fare qualcosa di concreto per queste persone nell'indigenza più completa. Forse in questo modo siamo chiamati a una vita alla fine più degna di essere vissuta, perché ci si sente vivi quando si fa qualcosa di concreto per chi ha bisogno. E questo vale per noi che siamo lontani, ma anche per loro, gli indigenti, che comunque sono costretti a fare qualcosa per loro stessi e per gli altri che sono nella loro stessa situazione. Forse Dio a volte spazza via tutto, o permette che sia spazzato via tutto, perché noi uomini abbiamo davvero bisogno di ricominciare da capo, forse perché c'è qualcosa nella nostra vita che non abbiamo capito bene, che non abbiamo vissuto bene, e allora Dio permette che si ricreino quelle condizioni in cui possiamo di nuovo avere una seconda chance e rivivere al meglio quelle situazioni. Quelle situazioni in cui si è indigenti, in cui nessuno si può vantare di essere chissà chi, perché tocca la sua miseria con mano, quelle situazioni in cui si sente di essere poveri in mezzo ai poveri e allora la carità, la condivisione, la compassione nasce spontanea, perché sono caduti i piedistalli su cui ci eravamo eretti e sentiamo di non essere più nessuno. Questa calamità accaduta in Birmania ci deve toccare da vicino, perché nessuno può dirsi al sicuro da calamità in questo mondo.
Se noi capiamo che questa calamità ci tocca da vicino, allora abbiamo già fatto un buon passo avanti nell'aiutare quel popolo. Perché ci sentiamo come loro. Il resto dovrebbe venire da sé, da persone intelligenti quali siamo, che capiscono il problema che c'è e agiscono di conseguenza, ognuno coi modi e con l'intelligenza che il Signore gli ha donato. Concludo con una frase del Signore Gesù Cristo che mi ricordo di avere letta in Maria Valtorta: “Poveri figli, avete bisogno del dolore per ricordarvi che avete un Padre in Cielo”. Se no, non ce ne ricorderemmo più.

domenica 4 maggio 2008

L'AMORE HA I SUOI TEMPI....CHE NON SONO I NOSTRI....

Io sono cresciuto tra ragazzi comuni, senza una impostazione religiosa particolare. Nessuno mi ha insegnato che il sesso va vissuto all'interno del matrimonio o che bisogna temperare l'istinto sessuale. Fin da ragazzino ho dato via libera alla fantasia sessuale, come gli altri ragazzi della mia età. Dico fantasia, perché poi la mia timidezza, da ragazzino, mi ha impedito di passare ai fatti con donne vere, di carne e ossa. Con il crescere è cresciuta la mia sensibilità ed è sbocciata la mia religiosità, e il valore della fedeltà per me è diventato una cosa importante, una cosa di un valore assoluto: “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te” o meglio “fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”. Il sesso è qualcosa di esplosivo , soprattuto in un ragazzo, ma assomiglia a un fuoco d'artificio che alla fine lascia i resti inceneriti, invece l'amore è qualcosa che ti riempe totalmente senza deludere. La mia religiosità in qualche modo mi ha impedito di essere uno come ce ne erano tanti, che si divertono con le donne e non si fanno nessuno scrupolo. Io lo scrupolo me lo facevo. A me interessava più di ogni altra cosa l'amore di una donna e l'amore di Dio. La mia unica fidanzata (ora sono single) l'ho conosciuta quando ho cominciato a frequentare un ambiente di giovani fedeli cattolici. Nel contempo avevo l'opportunità di apprendere, da gente che viveva la fede in modo autentico, uomini di Dio, quale fosse l'autentico pensiero della Chiesa in merito alla sessualità e all'amore tra un uomo e una donna. Devo dire che sapere che non avrei potuto avere rapporti con la mia fidanzata prima del matrimonio è stata per me una cosa dolorosa e umiliante. Lo dico senza vergogna, perché è così, anche se adesso questa cosa è stata da me pienamente accettata e forse non mi interessa nemmeno più di tanto. Gli stimoli sessuali sono in me ben vivi, ma per me non sono la cosa più importante. Li vivo quasi come un inganno, una cosa che ti chiama per poi lasciarti niente o quasi. Dico questo per dire che io non sono e non mi sento affatto diverso dagli altri. Io posso davvero capire i giovani che reagiscono all'insegnamento della Chiesa come se essa volesse togliere loro la cosa più importante che hanno: avere un rapporto intimo con la propria dolce metà. Lo posso capire perché ho vissuto anche io questo insegnamento come una severa proibizione.
Devo dire però che quando ero come ero prima c'era un'ambiguità di sentimenti da parte mia. Perché se avessi saputo che la mia fidanzata era una a cui piaceva tanto fare l'amore la avrei considerata una ragazza leggera, però quando ho saputo che lei aveva l'intenzione di seguire l'insegnamento della Chiesa, ci rimasi davvero male. Ora non ho questa ambiguità di sentimenti e apprezzerei davvero molto una ragazza, ipotetica fidanzata, che mi dicesse che volesse seguire l'insegnamento della Chiesa e non avere rapporti prima del matrimonio. Allora si può vedere che è amore anche il conservare la propria verginità, non solo darla via. L'amore è quando io sono padrone di una cosa e la dò via quando è opportuno e la conservo quando è opportuno. L'amore ha i suoi tempi....che non sono i nostri, come sempre....
“Il Mio tempo non è ancora venuto, il vostro invece è sempre pronto” (Gv 7,6) dice Gesù ai Suoi cugini che vogliono che Egli si manifesti subito al mondo. E ancora in Matteo 24,36 Gesù dice: “Quanto a quel giorno e a quell'ora, però, nessuno lo sa, neanche gli angeli del cielo e neppure il Figlio, ma solo il Padre”. E in Matteo 24,42: “Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Questo considerate: se il padrone di casa sapesse in quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi state pronti, perché nell'ora che non immaginate, il Figlio dell'uomo verrà”. Infine “Interrogato dai farisei: «Quando verrà il regno di Dio?», rispose: «il regno di Dio non viene in modo da attirare l'attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, o: eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi!»”

sabato 3 maggio 2008

COMMENTO INFERNO CANTO V

1-3. Nella cosmologia di Dante, discendendo i vari cerchi dell'inferno, si scende verso il centro della terra, dove si trova Lucifero, al fondo dell'inferno e al centro della terra. I cerchi sono di dimensione via via minore mentre si scende, mentre aumenta il dolore, perché aumenta la pena.
4-15. Nel mito Minosse è il re di Creta, figlio di Zeus e d'Europa, saggio e legislatore. Già i poeti antichi lo avevano immaginato come giudice dell'inferno. Nella Commedia di Dante, Minosse diventa un demonio, posto come guardiano all'ingresso dell'inferno vero e proprio e come giudice per destinare ciascuna anima dannata al suo luogo eterno di pena.
20. non ti inganni l'ampiezza dell'ingresso: in questo richiamo di Minosse a Dante si sente un richiamo evangelico. “Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!” (dal Vangelo di Matteo, 7,13-14).
28. Vedi nota ai vv. 67-69 del IV Canto.
39. In un solo verso viene detto chi sono i dannati di questo cerchio: coloro che sottomettono la ragione alla volontà (“Che la ragion sommettono al talento”).
40-45. Il contrappasso è che coloro che nella vita sono stati trasportati dal desiderio e dalla passione e non dalla ragione e dalla temperanza, qui sono trasportati via dal vento invece di essere portati dalle proprie ali come gli uccelli.
46-69. Tra tutte le anime di questo cerchio si distingue una schiera di anime che avanza ordinatamente (“facendo in aere di sé lunga riga” v.47). Sono tutte anime morte di morte violenta per amore (“ch'amor di nostra vita dipartille” v.69).
73-75. I due sono Paolo e Francesca. Paolo Malatesta, fratello di Gian Ciotto Malatesta, signore di Rimini e Francesca da Polenta, figlia di Guido il Vecchio da Polenta, signore di Ravenna. Francesca andò in sposa a Gian Ciotto Malatesta. Era un matrimonio combinato, per suggellare la pace tra le due famiglie. Ma Francesca si innamorò di Paolo, il fratello di Gian Ciotto. Gian Ciotto li sorprese insieme e li uccise. Quando ciò avvenne, Dante era un giovane di circa vent'anni. Dante mostra di avere riconosciuto che si tratta di loro al verso 116, quando chiama Francesca per nome.
82-84. Questa è la terza similitudine fatta con gli uccelli. Dopo le similitudini precedenti fatte con gli storni e con le gru, qui i due amanti sono visti dal poeta come due colombe.
89-96. In questo magnifico passaggio possiamo vedere che all'inferno c'è pietà. Pietà è amore. Amore dato e amore ricevuto, perché c'è Dante che ha pietà e c'è Francesca che riconosce questa pietà che Dante ha per loro. Questa pietà, questo amore all'inferno, crea una condizione degli elementi del tutto particolare, per la quale il vento tace.
127-138. Il libro dal quale lessero Paolo e Francesca è il romanzo francese di Lancillotto del Lago, del ciclo della Tavola Rotonda, che racconta dell'amore di Lancillotto per la regina Ginevra. Nel libro si legge che Galeotto pregò la regina Ginevra di baciare Lancillotto. Per questo, con la Divina Commedia, Galeotto è diventato sinonimo di intermediario tra due che si amano “Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse” (v.137).

INFERNO CANTO V

Così discesi dal primo cerchio
giù nel secondo, che racchiude minore spazio
e tanto più dolore, che punge al lamento.
Vi sta in modo orribile Minosse, e ringhia:
esamina le colpe nell’entrata;
giudica e manda (ai diversi luoghi di pena) a seconda di come avvinghia (la sua coda).
Dico che quando l’anima malnata
gli si presenta davanti, si confessa totalmente;
e quel conoscitore dei peccati
vede qual luogo d’inferno è da essa;
si cinge da sé con la coda tante volte
per quanti gradi vuole che giù sia messa.
Sempre dinanzi a lui stanno molte anime:
vanno avvicendandosi, ciascuna al giudizio,
dicono (le loro colpe) e odono (la sentenza) e poi sono precipitate giù.
“O tu che vieni al doloroso albergo”,
disse Minosse a me quando mi vide,
lasciando l'atto di cotanto ufficio,
“attento a come entri e a colui di cui tu ti fidi;
non ti inganni l’ampiezza dell’ingresso!”.
E il duca mio a lui: “Perché gridi solamente?
Non impedire il suo fatale procedere:
volle così Dio (colà dove si puote
ciò che si vuole), e di più non domandare”.
Ora incominciano le dolenti note
a farmisi sentire; ora sono venuto
là dove molto pianto mi percuote.
Io arrivai in un luogo muto di ogni luce,
che mugghia come il mare fa per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.
La bufera infernale, che mai si arresta,
porta gli spiriti con la sua rapina;
voltandoli e percuotendoli li molesta.
Quando giungono davanti alla rovina,
là le strida, il compianto, il lamento;
là bestemmiano la virtù divina.
Intesi che a così fatto tormento
sono dannati i peccatori carnali,
che sottomettono la ragione alla volontà.
E come gli storni sono portati dalle ali
nel tempo freddo, a schiera larga e piena,
così quel vento i mali spiriti
di qua, di là, di giù, di sù li porta;
nessuna speranza li conforta mai,
non di riposarsi, ma di minor pena.
E come le gru vanno cantando i loro lamenti,
facendo in aria di loro una lunga fila,
così vidi io venire, traendo lamenti,
spiriti portati dalla suddetta bufera;
tanto che io dissi: “Maestro, chi sono quelle
genti che l'aura nera così castiga?”.
“La prima di coloro di cui notizie
vuoi tu sapere”, mi disse quegli allora,
“fu imperatrice di molti popoli di diverse lingue.
A vizio di lussuria fu così rotta,
che, nella sua legge, libidine fece sinonimo di lecito,
per cancellare il biasimo a cui era condotta (dalla sua stessa vita).
Ella è Semiramide, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
imperò sulla terra che ora il sultano governa (il sultano d’Egitto).
L’altra è colei che si uccise amorosa (Didone),
e ruppe la promessa di fedeltà alla memoria del marito Sicheo (al cener di Sicheo);
poi c’é Cleopatra lussuriosa.
Vedi Elena (Elena di Troia), per cui per tanto colpevole
tempo si combatté, e vedi il grande Achille
che con (per) amore alla fine combatté.
Vedi Paride e Tristano”; e più di mille
anime mi mostrò e mi indicò nominandole,
che per amore lasciarono la nostra vita.
Dopo che io ebbi il mio dottore udito
nominare le donne antiche e i cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.
Io cominciai: “Poeta, volentieri
parlerei a quei due che insieme vanno,
e paiono essere al vento così leggeri”.
Ed egli a me: “Vedrai quando saranno
più vicino a noi; e tu allora pregali
in nome di quell’amore che li trasporta, ed essi verranno”.
Non appena il vento verso di noi li piegò,
mossi la voce: “O anime affannate,
venite a parlarci, se qualcuno non lo impedisce!”.
Come le colombe chiamate dal desiderio
con le ali alzate e ferme al dolce nido
vengono per l'aria, portate dal loro volere;
quei tali vennero via dalla schiera dov’era Didone,
venendo da noi attraverso l’atmosfera maligna,
tanto forte fu l'affettuoso grido.
“O essere grazioso e benigno
che nella fosca atmosfera vai visitando
noi che tingemmo il mondo del rosso del sangue,
se fosse amico il re dell’universo
noi lo pregheremmo di donarti la pace,
poiché hai pietà del nostro male perverso.
Di ciò che udire e che parlare vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi
fintanto che il vento, come fa, qui tace.
E’ situata la città dove nacqui (nata fui)
sulla marina dove sfocia il Po
per trovare pace lui e i suoi affluenti (co’ seguaci sui).
L’amore, che nasce facilmente in un cuore gentile
nacque in costui per la mia bella persona
la quale mi fu tolta; e il modo ancora mi ferisce.
L’amore, che a nessuno che sia amato consente di non ricambiare,
mi prese così fortemente per la sua bellezza,
che, come vedi, ancora non mi abbandona.
L’amore ci condusse ad una (medesima) morte.
Caina (zona dell'inferno più profondo) attende colui che ci strappò alla vita”.
Queste parole da loro ci furono rivolte.
Quando io sentii quelle anime ferite,
abbassai lo sguardo, e tanto lo abbassai,
fino a che il poeta mi disse: “A che pensi?”.
Quando risposi, cominciai: “Oh lasso (ahimé),
quanti dolci pensieri, quanto desiderio
condusse costoro al doloroso passo!”.
Poi mi rivolsi a loro e parlai io,
e cominciai: “Francesca, i tuoi martirii
mi rendono triste e pietoso fino alle lacrime.
Ma dimmi: al tempo in cui fra voi c’erano solo dolci sospiri,
per quale indizio e come vi concedeste all’amore
conoscendo gli inespressi desideri?”.
E quella a me: “Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
nella miseria; e ciò il tuo dottore lo sa.
Ma se di conoscere l’origine
del nostro amore tu hai tanto desiderio,
parlerò piangendo.
Noi leggevamo un giorno per diletto
di Lancillotto stretto dal suo sentimento di amore;
eravamo soli e senza alcun sospetto (di ciò che sarebbe successo).
Per più volte ci spinse a guardarci tra di noi
quella lettura, e i nostri visi impallidirono;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo che la desiderata bocca sorridente
fu baciata da cotanto amante,
questi, che da me non sarà mai diviso
la bocca mi baciò tutto tremante.
Galeotto (intermediario tra di noi) fu il libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non andammo avanti a leggere”.
Mentre che uno spirito disse questo,
l’altro piangeva; sì che di pietà
io venni meno così come se morissi.
E caddi come un corpo morto cade.

venerdì 2 maggio 2008

SUGGERIMENTI........

Che cosa dunque si può fare di concreto per diminuire le morti sul lavoro? Anzi, che cosa si può fare di concreto per ANNULLARE le morti sul lavoro? Intanto si può eliminare l'esteriorità, che non serve a nulla. Se la vita degli altri non interessa, non interessa, è inutile fingere che interessi. Tanto vale ammettere: “Io credo nell'economia, credo che chi si dà da fare sopravvive e chi incrocia le braccia soccombe.... Nel mondo si nasce e si muore, e quindi è inutile stare a preoccuparsi più di tanto.... Credo che bisogna essere scaltri e applicare le norme di sicurezza”. E cose di questo genere. Se davvero ti interessa la vita degli altri, allora ti interesserà la vita spirituale degli altri e non solamente la vita materiale. Allora sarai attento a tutti gli aspetti della vita degli altri. Allora non metterai fretta alla vita del tuo prossimo e questo lo salverà, spiritualmente e materialmente. Perché, diciamocelo, la fretta è causa di morte. E' causa di un ritmo produttivo che ti uccide. E' causa dell'inadempienza delle norme di sicurezza! Se davvero ti interessa la vita degli altri, allora non esiterai a fare qualche sacrificio a beneficio della collettività. Allora sarai disposto ad accettare un ritmo produttivo minore per il bene della collettività. Allora sarai disposto anche ad accettare delle battute di arresto, sempre per il bene comune!

RIPOSINO IN PACE. AMEN!

Si può morire di lavoro? Certo che si può! Forse che interessano a qualcuno le persone che muoiono ogni giorno sul lavoro? Se ne parla, se ne discute, si dedicano giornate dedicate a loro. Ma questo può bastare? No! Serve solo a soddisfare la nostra esteriorità, che abbiamo bisogno di fare vedere che lanciamo segnali concreti. E poi tutto torna come prima. Il Cristo vede se i nostri atti hanno una motivazione interiore o se sono esclusivamente esteriori: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che innalzate i sepolcri ai profeti e adornate le tombe dei giusti, e dite: Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non ci saremmo associati a loro per versare il sangue dei profeti; e così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli degli uccisori dei profeti. Ebbene, colmate la misura dei vostri padri!” (Mt 23, 29-32). Qualcuno si è lamentato dei rifiuti a Napoli come se quello fosse il problema più grave, ma quando c'è la vita umana di mezzo, non credo che ci siano problemi più gravi! Ma siete sicuri che la mia vita, la tua vita, la nostra vita, sia importante per tutti gli altri? Io non credo. Io non credo che a qualcuno interessi, per esempio, se io lavoro o se me ne vado a spasso tutto il giorno. Ma se per vivere poi sono costretto a rubare, ecco che allora questo interessa, ma solo perché divento un problema per la sicurezza del cittadino! Io non credo alle parole scontate che si spendono in favore dei giovani: più lavoro, meno disoccupazione, ecc....Parole, parole, parole, parole. Io non credo alle parole scontate che si spendono in favore della sicurezza sul lavoro! Io credo che in nome dell'economia si tollera che continuino a morire persone di lavoro. Poi facciamo un bel comizio sulla sicurezza sul lavoro, condito di tante belle parole, e così ci sentiamo di nuovo a posto!

giovedì 1 maggio 2008

COMMENTO INFERNO CANTO IV

31-42. Vedi nota ai vv. 124-126 del I Canto.
46-63. Dante chiede conferma a Virgilio della discesa di Cristo agli inferi, dopo la Sua Risurrezione. “Per volere esser certo di quella fede che vince ogne errore”: la dottrina della fede cristiana. E Virgilio lo conferma in questa fede, rispondendogli che lui era da poco nel limbo, infatti è morto nel 19 a.C., quando vide venire Cristo vittorioso: “ci vidi venire un possente, con segno di vittoria coronato”, che porto via con sé, per farli beati, molti spiriti, tra i quali, come leggiamo, Adamo, Abele, Noè, Mosè, Abramo, il re Davide, Giacobbe coi suoi dodici figli, dai quali nacquero le dodici tribù d'Israele, e con sua moglie Rachele.
67-69. Il primo cerchio dell'inferno, ossia il limbo, dove si trovano ora Dante e Virgilio, non è inferno vero e proprio. E infatti si dice che Cristo dopo la Sua Risurrezione è disceso agli inferi, non all'inferno. Qui possiamo ancora trovare la luce. Non così nell'inferno vero e proprio, che comincia con il secondo cerchio e con il V Canto: “Io venni in loco d'ogne luce muto”(V Inf., 28). E l'ultimo verso di questo canto dice “E vegno in parte ove non è che luca” (IV Inf., 151): “e vengo in quella parte dove non c'è niente che faccia luce”.
73-78. vedi nota ai vv. 106-111
79-81. Il ritorno di Virgilio nel suo luogo, il limbo, è accompagnato da questa voce che lo accoglie onorandolo.
100-102. Dante umilmente dice che è il sesto in quella compagnia di poeti formata da lui stesso, Virgilio, Omero, Orazio, Ovidio e Lucano. E dice che è molto onorato di essere il sesto “tra cotanto senno”.
106-147. Il nobile castello rappresenta la sapienza umana o la nobiltà d'animo. Le sette mura con le sette porte possono intendersi come le sette arti liberali del trivio (grammatica, dialettica e retorica) e del quadrivio (aritmetica, geometria, musica e astronomia) oppure possono intendersi come le sette virtù, le quattro cardinali (giustizia, prudenza, fortezza e temperanza) e le tre teologali (fede, speranza e carità). In questo castello sono entrati anche i quattro grandi poeti di cui Virgilio dice (vv. 73-78) che si distinguono dalla condizione degli altri per “l'onrata nominanza” che suona di loro nella vita terrena. E' da intendersi che questa distinzione si estende a tutti coloro che si trovano dentro il castello, che Dante chiama: “li spiriti magni” (v.119). Ciò che appartiene alla terra appartiene anche al mondo dell'aldilà, difatti la fama di questi grandi personaggi, la loro “onorata nominanza”, crea per loro una condizione speciale costituita dal potere entrare liberamente in questo nobile castello. Un discorso analogo si può fare per la frase che Gesù Cristo disse a San Pietro: “A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli” (Mt 16,19). Anche in questo caso la vita sulla terra e la vita nei Cieli appaiono inestricabilmente legate tra di loro.
151. Vedi nota ai vv. 67-69

INFERNO CANTO IV

Mi interruppe il sonno profondo
un cupo tuono, sì che io mi riscossi
come persona che è svegliata in modo brusco;
e guardai intorno con gli occhi riposati,
alzatomi in piedi, e guardai fisso
per conoscere il luogo dove io fossi.
E' vero che mi trovai sulla riva
della valle d’abisso dolorosa
che accoglie il frastuono di infiniti lamenti.
Era oscura e profonda e nebbiosa
tanto che, per quanto aguzzassi la vista,
io non vi distinguevo alcuna cosa.
“Ora discendiamo qua giù nel cieco mondo”,
cominciò il poeta tutto smorto.
“Io camminerò davanti e tu dietro di me”.
E io, che del suo colorito mi fui accorto,
dissi: “Come verrò, se tu hai paura
che di solito al mio dubitare sei conforto?”.
Ed egli a me: “L’angoscia delle genti
che sono qua giù, nel viso mi dipinge
quella pietà che tu senti essere timore.
Andiamo, che il lungo cammino che dobbiamo fare ci incalza”.
Così entrò e così mi fece entrare
nel primo cerchio che racchiude l’abisso.
Là, stando a ciò che si poteva ascoltare,
non c’era altra sofferenza più che di sospiri
che l’aura eterna facevano tremare;
ciò avveniva per un dolore senza martirii,
che avevano le turbe, che erano molte e grandi,
di bambini e di donne e di uomini.
Il buon maestro a me: “Tu non domandi
che spiriti sono questi che tu vedi?
Ora voglio che tu sappia, prima che più procedi,
che essi non peccarono; e se essi hanno meriti,
non bastano, perché non ebbero battesimo,
che è la porta della fede (la fede cristiana) nella quale tu credi;
e se loro vissero prima del cristianesimo,
non adorarono Dio nel modo dovuto:
e di questi cotali sono io medesimo.
Per queste mancanze, non per altro peccato,
siamo perduti, e solo di ciò puniti
che senza speranza viviamo col desiderio (del Cielo)”.
Grande dolore mi prese al cuore quando lo intesi,
perché gente di molto valore
conobbi che in quel limbo erano sospesi.
“Dimmi, maestro mio, dimmi, signore”,
cominciai io per volere essere certo
di quella fede che vince ogni errore:
“uscì di qui mai alcuno, o per suo merito
o per merito altrui, per giungere ad essere beato?”.
E quegli che intese il mio parlare allusivo,
rispose: “Io ero nuovo in questo stato,
quando ci vidi venire un potente,
con segno di vittoria coronato.
Trasse da qui lo spirito del primo progenitore (Adamo),
di Abele suo figlio e quello di Noè,
di Mosè legislatore e ubbidiente;
Abramo patriarca e il re Davide,
Israele (Giacobbe) con il padre (Isacco) e coi suoi nati
e con Rachele, per la quale tanto fece,
e molti altri e li fece beati.
E voglio che tu sappia che, prima di essi,
nessuno spirito umano era stato salvato”.
Continuavamo a procedere mentre egli parlava,
e attraversavamo la selva,
la selva, dico, di spiriti numerosi.
Non avevamo percorso tanta strada
da quando mi svegliai, quando io vidi un fuoco
che faceva una zona emisferica di luce nelle tenebre.
Ne eravamo ancora un poco lontani,
ma non tanto che io non distinguessi in parte
quale onorabile gente occupava quel luogo.
“O tu che onori scienza e arte,
questi chi sono che hanno tanto onore,
che dalla condizione degli altri li distingue?”.
E quegli a me: “L'onorata nominanza
che di loro suona lassù nella tua vita terrena,
acquista favore in Cielo che così li privilegia”.
Intanto una voce fu udita da me:
“Onorate l’altissimo poeta;
lo spirito suo torna, che era andato via”.
Dopo che la voce terminò e si fece silenzio,
vidi quattro grandi spiriti venire da noi:
avevano un aspetto né triste né lieto.
Il buon maestro cominciò a dire:
“Guarda colui con quella spada in mano,
che precede gli altri tre come signore:
quegli è Omero poeta sovrano;
l’altro è Orazio scrittore di satire che viene;
Ovidio è il terzo, e l’ultimo è Lucano.
Poiché ciascuno condivide con me
il nome (di poeta) che riecheggiò nella voce unanime (sola)
mi fanno onore, e di ciò fanno bene”.
Così vidi io adunarsi la bella scuola
di quel signore dell’altissimo canto (Omero)
che sopra gli altri come un'aquila vola.
Dopo che ebbero ragionato insieme alquanto,
si rivolsero a me con un cenno di saluto,
e il mio maestro sorrise di ciò;
e mi fecero ancora molto più onore,
che loro così mi fecero parte della loro schiera,
così che io fui il sesto tra cotanto senno.
Così andammo fino alla luce (del fuoco),
parlando di cose di cui è bello tacere,
così come era bello il parlarne là dov'era.
Arrivammo ai piedi di un nobile castello,
sette volte circondato da alte mura,
difeso intorno da un bel fiumicello.
Questo attraversammo come fosse terra dura;
per sette porte entrai con questi saggi:
giungemmo in un prato di fresca verdura.
Vi erano genti con occhi tardi e gravi,
di grande autorità nel loro aspetto:
parlavano poco, con voci soavi.
Ci togliemmo così da uno dei lati,
in luogo aperto, luminoso e alto,
sì che si potevano vedere tutti quanti.
Lì, di fronte, sopra l’erba lucente,
mi furono mostrati gli spiriti dei magnanimi,
del cui vedere mi esalto nell’intimo.
Lì vidi Elettra con molti compagni,
tra i quali riconobbi Ettore ed Enea,
Cesare armato con gli occhi vividi.
Vidi Camilla e la Pentasilea;
dall’altra parte vidi il re Latino
che sedeva con sua figlia Lavina.
Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,
Lucrezia, Giulia, Marzia e Cornelia;
e solo, in disparte, vidi il Saladino.
Dopo che alzai un poco più gli occhi,
vidi il maestro di coloro che sanno
sedere tra filosofica famiglia (Aristotele).
Tutti lo ammirano, tutti gli fanno onore:
lì vidi io Socrate e Platone,
che davanti agli altri più vicino gli stanno;
Democrito che il mondo a caso pone,
Diogene, Anassàgora e Talete,
Empedocle, Eraclito e Zenone;
e vidi il bravo raccoglitore della qualità delle piante,
Diascoride dico; e vidi Orfeo,
Tullio (Cicerone) e Lino e Seneca morale;
Euclide geometrico e Tolomeo,
Ippòcrate, Avicenna e Galeno,
Averroé che il gran commento fece (commento ad Aristotele).
Io non posso ritrarre di tutti a pieno,
perché mi incalza sì il lungo trattato,
che molte volte il racconto è inadeguato ai fatti.
La compagnia dei sei si divide in due:
per altra via mi porta il saggio duca,
fuori dalla quiete, nell’aura che trema.
E vengo in quella parte dove non c’è niente che faccia luce.

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